Un urlo strappato dalla bocca finisce sulle corde metalliche e poi sulla pancia di una chitarra acustica. Il microfono amplifica. Porta in posti distanti di semi oscurità. Sulla tempia destra una cicatrice coperta da pelle nuova. Roger Fray con una faccia di chi deve aver sofferto bene e a lungo, ed aver coccolato un gatto sulle gambe per mezza vita nei suoi viaggi. L’odore del fumo di un’esplosione. La folla in delirio. Il riflesso di luce sulla canna della pistola. Roger Fray con la faccia di chi ha preso tutto dalla vita. Meno una cosa. Un proiettile dritto al polmone. Grandi uomini di scuro aprono la folla. Urla isteriche senza il chiasso della batteria. Della melodia di Fray. Bottiglie, vestiti, carte, sigarette e quella stessa pistola gli ultimi spettatori, lasciati di fretta sul freddo pavimento della Chicago Arena.
Tutto che andava a rock. Roger Fray ero io. Ed ero al centro. Al centro di tutto. E avevo sempre i microfoni dalla mia parte, e chi li teneva accesi per me. E avevo il gatto che mi aspettava quando tornavo, stanco, con la fronte sudata. E quello mi bastava. La solitudine di una stella gelosa della sua luce. Ma la vita di chi vive al centro è difficile sapete. E non si può tornare indietro. Si può solo cadere, perdere tutto. Ma non perdere quello che sei davvero. La faccia reggeva bene. La voce faceva ancora vibrare le casse e saltare le persone. Mi faceva comprare tutto quello che non mi serviva.
Poi è arrivata quella nuvola grigia. Puzza la polvere da sparo. Ma è un dettaglio. Perché avevo paura che mi avrebbe fatto male. E invece avevo solo qualcosa da imparare. Le cose da scegliere di capire fanno male. Perché l’ignoranza è gratuita. La coscienza ti mangia un pezzetto di vita. Il palco si è spento all’improvviso. Si è acceso il silenzio. Per me. Ed io ho scelto.
Tu mi hai ucciso. Hai guardato nelle mie cicatrici, nella fatica delle pieghe della mia pelle. E hai visto chi sono davvero. Una stella non gelosa della sua luce. Quel proiettile, brutalmente, ha fatto parte di me per un secondo di un paio di giorni. E quando dal silenzio, sei avanzata verso di me, hai lasciato l’arma, hai preso a correre. Non c’era più nessuna, nessuna cosa che io volessi, se non te. Mentre cadevo e già non ti vedevo più. La vita mi sembrava lunga. Mi è sembrata ancora più lunga. Mi è sembrato di piangere e stringere i denti davanti alla mia impotenza. La coscienza di non vivere da me stesso mi stava mangiando tutta la vita. E invece avevo solo qualcosa da imparare.
Allora mi hai preso. Con le mani hai tenuto il mio viso. Non mi serviva più niente. La folla, i microfoni, la polvere da sparo, i viaggi, vivere al centro. Grazie per aver ucciso qualcosa che ero. Che non volevo. Un vuoto d’aria, respiri mancati. Poi sentire vivere ancora. Ostinata a vivermi accanto, dentro. Roger Fray non esiste più. E non andrà più dritto sul palco a prendere dalla vita quello che non lo fa essere un vero Roger Fray. Il sudore sulla fronte lo asciugherà il vento dei tuoi respiri. La paura degli insuccessi sarà schiacciata dai nostri abbracci lunghi. E le cicatrici resteranno sotto il maglione colorato su cui vieni a prenderti il buon giorno.