A un certo punto della partita ti rendi conto che non sei il flipper, non sei uno dei tanti curiosi che gira lì intorno con la birra in mano, e facendo due conti realizzi che non sarai tu a oltrepassare il punteggio record illuminato dal tabellone elettronico. Lui ti chiama speed, vai su e giù. Questo è quello che puoi fare, che sai fare, che devi. Più che puoi. Questo dice anche il contratto collettivo nazionale per i dipendenti pubblici e privati del destino. Ti sbatti per qualcuno, che si differenzia in IL qualcuno e UN qualcuno, per mani buone o per le ansie di fine giornata da calmare o lo fai per avanzi di coscienze che hanno già perso tutto il tempo utile. Ti superi. Per un’imprecazione o un’esultanza, per un gettone che rotola dritto nella cassa del gestore. Sei un piccolo territorio del tempo. A un certo punto ti accorgi, mi racconta Alfredo, di essere tutto e niente.
Il tuo nome è speed e sei una delle tante palline libere di girare all’impazzata soltanto lungo i tragitti possibili posti sotto un vetro. Guarda che per loro è solo un gioco, lo so, per te è tutto. I loro cinque minuti sono i tuoi cinque minuti e i tuoi cinque minuti sono tutto quel che puoi vivere di volta in volta. Premere “START”. C’è una moneta che trema e cento pensieri che cadono a terra, c’è un durante che è un temporale e tu ci passi attraverso e ti dimentichi di respirare. Luci e sudori, aliti dispersi come correnti ascensionali riempiono la stanza di fiducia e poi dopo, come correnti convettive, ammassano nubi e fulmini incontrollabili. E poi c’è una fine con un totale, che a volte importa e altre no. I pensieri tornano dove sono partiti, quei rumori stupidi e allegri degli anni ’80 si fermano e tutti, tra i rumori della normalità si sentono al silenzio, si sentono più soli. “RIPROVA” lampeggia. Ti chiami speed, la partita è finita. Torni a casa per rallentare e già sulla soglia hai la tristezza di chi non sa cosa fare, l’inutilità addosso di chi non si sa fermare.
– Anche io?
– Anche tu, mi dice Alfredo.
Anche tutti, aggiunge. Siete bravi a dimenticare il durante quando vi serve farlo, più in fretta possibile e poi pronti a preoccuparvi di nuovo, sul serio, solo davanti al vuoto. Dammi che vado, pensa qualcuno, che vado a dimenticare. Che vado a letto presto perché stare sveglio a fare la conta al presente non serve per stare bene. Siete bravi a semplificare, ma non è tutta colpa vostra. È un modo per sopravvivere, per non far scoppiare i cuori prima che devono, e gli occhi prima che devono. È questo, è incluso nella terza pagina del contratto nazionale dei dipendenti del destino. Saettare e dimenticare. Con traiettorie semplici, possibilmente.
Eppure nel durante ci sono mani come queste, me le mostra. Le guardo bene. Alfredo non aggiunge nulla ma credo di capire cosa in realtà stia gridando da questa panchina. Mani buone. Mani che hanno spostato passione da un posto all’altro, che hanno rivestito bene da parati sul cuore di persone che meritavano e che anche no. Mani dal coraggio istintivo, mani che sanno salvare stelle dai buchi neri. Mani che sanno suonare il silenzio che serve. Mani che raccolgono persino i respiri. Mani che restituiscono sempre, qualcosa, mai sprovviste di quel che conta.
Le sue mani spariscono di nuovo nel cappotto. È tutto lì, per lui guardarle implica ricordare. Quei pochi secondi mi sono bastati per capire: Alfredo ha maledettamente ragione. Anche quando dice “tutti”. E mi trema la coscienza, ci leggo dentro speed. Capisco di non essere gioco o regola e tantomeno giocatore e, per un momento, smetto di sentirmi così importante. Istintivamente tiro fuori le mani dai guanti per osservarle. Che anno è davvero qui dentro? Il piccolo territorio di tempo di chi sono? A quanto vuoto corrisponde l’ansia da cui scappo? Stringo i pugni. Queste mani ci sono, qualcuno dovrà pur saperlo. Dietro la panchina una scia di persone che sono coriandoli in me, e quante soluzioni a problemi che ho inventato solo io, lezioni da non dimenticare. Oggi non è l’edizione speciale del Tg ed io sono tutte le mie edizioni fino ad oggi. Sono trasmesso con tutto il peso e la leggerezza del passato e voglio guardare il tuo durante. Le tue mani.
Non dirmi che vai, che devi andare a dimenticare. Io e te non siamo “tutti”.