I treni, le vacanze, la verità, stiamo tutti aspettando cose che arriveranno in ritardo. A questo siamo abituati, teniamo duro, addomestichiamo il futuro con una faccia rassegnata e se c’è una serata in cui bisogna esplodere di allegria possiamo. Questo ad Alfredo (questo Alfredo) non interessa. Lui è cresciuto quando la pioggia non si chiamava allerta meteo e ci si presentava agli appuntamenti due minuti in anticipo perché non c’era WhatsApp per scusarsi e in estate si fuggiva tutti insieme al mare, come dei folli sulle Topolino cariche, perché si sapeva tenere insieme una famiglia.
Alfredo non ha più tempo, ma non come te che devi uscire da un ufficio trafficato di sedie girevoli e copie di Monet in sala riunioni. Alfredo non ha più tempo per capire tutti questi ritardi nelle cose da dire, nelle cose da fare, il ritardo dei governi e della giustizia, della verità nelle notizie, delle persone che sono qui, qui davanti a te e ti parlano come se fossero in Nuova Zelanda. Ha mangiato troppe briciole del tempo degli altri, ha spalmato sui calendari troppe domeniche esigenti, ci ha bevuto su persino troppo barolo per confondersi le idee, ha studiato le espressioni da fare per farsi accorgere.
Siamo frangibili, al tempo presente, e c’è sempre qualcosa da frangere. Il ritardo è il sasso lanciato da qualche mano innocente che finirà per frangerti. Il ritardo non è solo la mancanza di quello che non c’è, è la mancanza di quello che ti serve proprio nel momento in cui ti serve. Per questo è umanamente complicato gestire i ritardi. Persone in ritardo che aiutano altre persone in ritardo, poi. Eppure quando non ti manca qualcosa che ti serve davvero tanto, che forse è tutto, la aspetti, eccome, non hai alternative. Ed è colpa tua, dice qualcuno, non hai capito come si fa. Potresti fare così, e così, sopportare meglio, fingere un pochino, scappare e lasciare tutto, o divertirti un pochino, abbassare i toni e uscire la sera. Invece la verità è che potresti, eventualmente, solo aspettare da un’altra parte una cosa simile. Aspettare di nuovo il nuovo ritardo e ancora non capirlo. E no, non si può uscire così dalla vita, a cazzo, con le mani in tasca come se niente fosse. Fischiando di felicità sul niente. Siamo frangibili anche al futuro semplice. Dritto in faccia.
Alfredo sta diventando cattivo per questo, per il trovare sbagliato tutto questo, ma è ancora molto indietro. Non ha ancora nemmeno imparato ad uccidere le mosche. Uccide sé stesso e dice cose giustissime alle persone pur di dare peso a questi ritardi e di fargli del male. Non abbraccia e non dice buongiorno quando le persone se lo aspettano. Alfredo prende uno di quei pezzi che è diventato e lo muove con calma su qualcuno come se fosse un bisturi. Dicono che le incisioni non si dimenticano e lui non vuole essere dimenticato tanto presto. Alfredo non ha cambiato niente, non cambierà nulla, è in un mondo che non è il suo perché nessuno arriva mai in tempo per mostrarglielo. E non ha più tempo per capire perché così ha deciso. Prima o poi arriva il momento in cui si decide che il tempo di addobbare il cemento armato è finito.
Io, non so, non dico niente. La verità dobbiamo sempre esagerarla altrimenti nessuno ci ascolta, però… Con un sorriso spesso come una sottiletta fredda Alfredo mi guarda. Per la prima volta da quando ci stiamo guardando. È difficile farsi un viaggio con Alfredo, fa male, ma il suo posto è in questo scomparto, non l’ho scelto, l’ha scelto il caso. Guardo l’orologio e realizzo che arriveremo in ritardo.
Con la dignità di Alfredo e la mia incapacità di dire qualcosa che abbia valore, le previsioni sbagliate, altre cose da aspettare. Cose di cui non avremo più voglia.
Mi fanno male i ritardi, dice Alfredo. Sai che c’è, aggiunge, ma dove saremmo ora senza tutti questi ritardi?