Una spesa quotidiana di opportunità, sono in corsia a scegliere le migliori. Poi faccio i conti con quel che ho, il bancomat leggero e tutto quel futuro prossimo pianificato che ha il suo bel peso sul bilancio. Detrazioni, deduzioni. L’anno fiscale strizza l’occhio ma ti vuole ammazzare, obbligazioni come soluzioni, c’è un mercato di nicchia su cui puntare il prossimo brivido. Azione, come suona bene. Le compri, le rivendi ma soprattutto le fai. E loro ti fanno essere. L’aurora boreale gratuita e i niños che mangiano in una mensa per poveri di Condebamba, in Bolivia. Sarà giusto farmi andare bene qualche possibilità di seconda scelta.
Abito dietro la fermata di una stazione ferroviaria e il rumore delle volte è insopportabile. Disturba i sogni. Il convoglio si ferma per pochi minuti ma frena per troppi secondi, puoi capire questi treni vecchi fanno un rumore, non riesco a concentrarmi sul discorso. Il sole è impietoso qui, dai binari si alza l’aria bollente e le finestre dei palazzi sono tutte aperte. Anche quelle dei bagni. Caldo e rumore. Gli incubi aspettano la quiete della notte per lanciarsi fuori. Dicevo?
C’è sempre un punto, quello a cui ci chiedono di arrivare gli impazienti. A volte a quel punto dobbiamo arrivarci da soli, anche quando è tardi ed è freddo e lontano questo incomprensibile zig zag. Bam. Un puntino. Un’opportunità. Un momento. Che non è mai stato così.
A pensarci fa pure male perché non resta fermo, è la causa di certi dolori sottili. Resti seduto a metà, storto. Quel momento lo senti fuori ma anche dentro, l’attimo in cui puoi cambiare tutto o il tutto che serve a te, quello “se vuoi puoi” e tu vuoi, vuoi sempre. Ti sei mangiato il mondo, non ti faceva nemmeno da spuntino. È lì quell’istante, incastrato, sperato e maledetto, amato e allo stesso tempo odiato. Hai il grido che non sapevi di avere, una mira che non avevi mai esercitato. E che diavolo importa, funziona. C’è stato quel momento in cui hai seguito il punto cardinale giusto per splendere, per farti seguire da qualche dito silenzioso. Hai ancora le scarpe di quel bel pezzo di strada, non le metterai più ma non le butteresti mai. C’è appeso un vestito che è stato sfilato dal tuo corpo in un modo che, che quello non torna. Uno scontrino di una libreria, qualche frase sentita sottolineata, un contratto accettato, un appartamento quasi tutto da pagare, una fotografia che dice sempre ora e luogo. Cancella. Recupera. Oppure un banale messaggio sul telefono, cancellato ma ricostruito decine di volte nella mente. Tanto lo sforzo che nei buchi neri nostalgici ti concentri a metà, storto il sorriso incompleto.
Dicevo? Bam. Non possiamo collezionare tutto. Sarà giusto farsi andare bene quello che ancora non ci è caduto dalle braccia. La spesa, qualcuno che ha i nostri stessi occhi in miniatura, il nostro stesso petto, l’emozione di un pensiero semplice, la dignità, l’ostinazione che gli impazienti chiamano follia. E se questo non ci basta si può vendere qualche azione. Come smettere di fare, fare tutto come se niente fosse e tutto come fosse niente. Aspettare, più a sud. Non rispondere, farsi distrarre dai treni e dai gatti, investire gli impazienti fuori dalle strisce. Ridere con un gargarismo di Chianti, lasciare la penna rossa fuori. Fuggire dal punto. Lo sai che è un’infrazione del buon senso.
È questa la festa del mio, del tuo prossimo discorso, muto e pieno. I cui fluttuano spropositati sogni.