Ha vent’anni già ma conserva ancora il sorriso sghembo di quand’era bambino, di quando era stanco di fare i compiti e chiedeva a sua madre la scatola dei giochi. Anche oggi, con febbraio che lancia pioggia contro i vetri del bar, con febbraio che gli piove dentro, indossa il suo solito sorriso e si guarda intorno. Il bancone, Marco alla macchina del caffè – andavano alla materna insieme, con Marco, chissà se lui se lo ricorda – e quella bella ragazza castana che è qui ogni settimana con un ragazzo diverso. E’ che gli si serra la gola, a guardare il castano dei suoi capelli, perché anche Monica aveva gli stessi boccoli, quand’era con lui e non si era ancora fatta rossa, e gli stessi occhi e camminava nello stesso modo, un po’ ondeggiante, come fosse sempre incerta se restare in piedi o cadere, se mantenersi o precipitare. Farsi salvare o scomparire. Ed era quello che aveva fatto, alla fine. Scomparire.
Al tavolino alla sua sinistra c’è una donna dall’età indefinibile, gli occhi verdi come un miracolo che appare e scompare tra le fiamme dei capelli. Quarant’anni, forse. Lavora a maglia, lana nera, ma esiste ancora gente che lavora a maglia? Eppure lei è lì, lavora instancabile, ogni tanto lo guarda e fa un sorriso breve, frettoloso, poi dirotta lo sguardo verso il tessuto nero che le sgorga dalle mani.
“Perché il nero?” le chiede lui, all’improvviso, prima ancora di pensare di rivolgerle la parola. Sarà per il caffè che ancora non arriva e lui, senza caffè, non ragiona. Sarà che il ricordo di Monica gli si sta accartocciando nel cuore e lui non può sopportare in silenzio il rumore che fa il passato quando fa male.
“Perché contiene tutti i colori.” gli risponde la donna senza smettere di sferruzzare. Su e giù, su e giù. I ferri che giocano alternandosi senza emettere suono.
“Li assorbe, vorrai dire.”
“Li custodisce.” lo corregge lei, e sospira un sorriso.
Restano in silenzio, senza guardarsi. Li custodisce. L’accartocciarsi di Monica dentro il suo petto. Vorrebbe buttarla via, l’immagine di lei. Scaraventarla fuori dal finestrino di un’auto in corsa, come una carta di caramella. Eppure, resta.
“Hai l’aria di uno che è tanto tempo che finge di sorridere.”
Lui resta interdetto e si volta a guardarla. Quando incrocia i suoi occhi non gli sembrano veri, si possono avere occhi così verdi? Scoppia a ridere di una risata nervosa, poi risponde:
“Sono un po’ come la tua lana nera, io. Custodisco tutto dentro di me, anche ciò che vorrei stracciare via.”
Tutti hanno una storia da raccontare in questa benedetta vita e nessuno vuole ascoltare, per la briga da prendere, perché comunque si somigliano tutte, perché in fondo ognuno traccia le proprie rotte lontano dagli scogli, i problemi, altrui. Prendiamo quel che possiamo per quanto possiamo, poi per dare troviamo mille scuse. Però é un discorso talmente complicato che é tremendamente semplice: o sei in credito o vai in perdita, in pari non si sta mai. E in perdita ci stanno solo quelli a cui gli funziona il cuore. Lui aveva una storia da raccontare, ma forse ancor più da custodire. Doveva disfarsene, doveva farla diventare definitivamente perla e appenderla su di qualcuno. Perché un dolore può splendere, può testimoniare e può essere al posto giusto anche nel presente.
Monica aveva cercato di stare in pari, equilibrista invano, finendo per usare più testa che cuore, finendo per essere in credito con tutti. Questo aveva consumato i gesti e le parole, perdevano peso, senso.Tanto che lui non se l´era sentito più di convivere con il pilota automatico inserito e nemmeno di spiegare, perché entrambi sapevano già tutto, così le aveva lasciato il mobilio ed era tornato provvisoriamente dai suoi con il minimo indispensabile in straripanti vecchie valigie. E mentre costruiva il suo castello di sabbia una semplice telefonata aveva fatto da colpo di vento, ma forse più da colpo di stato, cambiando l´ordine delle cose e il loro significato. Il suo solito sorriso perso e una chiamata che poteva essere qualsiasi.
“Aspetto un bambino, è tuo”.
“Stai scherzando?”.
“Sono tre mesi, tre mesi che lo porto dentro. Senti mi dispiace, ma son ancora in tempo per…hai capito. Penso che sia la cosa migliore”.
Un bambino. Un figlio. Un pezzo nuovo, un nuovo pezzo di te. E la cosa migliore.
“Non è mio”.
“Certo che è tuo”.
“È nostro”.
Ottobre strappava i giorni del calendario come le foglie dagli alberi. Nulla aveva più lo stesso sapore. La vita cambiava. Ci son momenti di transizione simili ai binari per le escursioni termiche dei ponti, ti avvicini se é caldo e ti allontani se è freddo e quando ci passi sopra li senti, li senti sempre. Era già difficile ragionare per due, ora per tre diventava una scommessa. Lui aveva fortemente voluto che venisse al mondo. Chi gliel’avrebbe spiegato da grande che non era il frutto di un amore? L´avrebbe scoperto da solo/a. La vita é triste, profondamente. In mille maniere diverse. Facciamo del male senza accorgerci.
Lui aveva sempre una storia da raccontare, ma forse ancor più da custodire. Doveva disfarsene facendone una cosa nuova, doveva farla diventare definitivamente perla e appenderla su di qualcuno. Perché un dolore può splendere, può testimoniare e può essere al posto giusto anche nel presente. Alla 22esima settimana della gravidanza, in preda al dubbio di non farcela e all’estasi del pensiero di dedicarsi finalmente alla vita di qualcuno che non fosse se stesso, in quella settimana scoprì che sarebbe diventata Gabriella la gioia figlia di un grande dolore, avrebbe finalmente visto da che parte proviene la luce e l’avrebbe chiamata perla.
Fabio Pinna e Bianca Rita Cataldi